La radio è un’azienda, ma è anche vero che sono in molti a dimenticare tale principio. Ciò è anche dato dal fatto che non siamo di fronte a una ‘fabbrica’ come le altre. Eppure questa caratteristica non dovrebbe legare il medium a sentimenti di superiorità, persino sul futuro del mezzo spesso: purtroppo però accade, e più di una volta. Nel corso della nostra esistenza, abbiamo partecipato a numerosi eventi dove abbiamo incontrato diverse persone volenterose e capaci, tutte accomunate dall’obiettivo di entrare nel mondo radiofonico italiano.
Tra queste, ahinoi, ha sempre capeggiato il solito leitmotiv: la radio è un circuito chiuso. Una tesi che viene avvalorata da un dato abbastanza semplice: non esistono job alert di lavoro dedicati alle mansioni di un’emittente. Per lo meno, da parte delle grandi aziende. Qualcuna più piccola crea qualche annuncio di lavoro, poche retribuiscono. Colpa della crisi economica prima, pandemia poi, diranno. Ma da una parte è possibile ipotizzare un problema sistemico all’interno proprio della radiofonia italiana: non si guarda al futuro.
La radio italiana rischia poco (e sembra disinteressata a farlo)
Una delle tante testimonianze raccolte dalle nostre orecchie – neanche a farlo apposta – riguarda i giovani speaker che in prima battuta devono riuscire nell’ardua impresa di consegnare un curriculum vitae e una demo alle aziende alle quali intendono proporsi. Siamo rimasti particolarmente colpiti da racconti di persone più o meno volenterose, più o meno capaci, che, arrivate dinanzi alle porte dell’emittente, trovavano la strada sbarrata, facendosi carico anche di risposte – quasi – di disprezzo.
A un giovane, per esempio, hanno risposto che non serve a nulla portare i curricula a mano. A un altro, invece, hanno detto che tanto le mail non vengono mai lette, e che nessuno deve rispettarsi una risposta perché, si sa, nessun ha tempo da dedicare al futuro. Tutto ciò nonostante alcuni professionisti di settore esortano continuamente i giovani a proporsi, a inviare mail, a prendere un treno e bussare alle porte dell’emittente fuori città. Dunque, dove sta la verità?
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Nel mezzo, ovviamente. Innanzitutto, va detto che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: la radio italiana non è composta unicamente da queste storie, vi sono anche dei comportamenti virtuosi di emittenti (anche note a livello nazionale) che dedicano il proprio tempo alla ricerca di talenti per allargare il bacino di settore. Ma una medaglia ha due facce, e così il sistema radiofonico. È inutile negarlo e pensare al nostro lavoro come l’Eden inviolabile dai sentimenti negativi: esistono realtà che hanno perpetrato l’idea di contesto lavorativo elitario e incline a realizzare una cernita al massacro – in quanto, in fin dei conti, ognuno di noi è solo una pedina.
Ciò che il sistema radiofonico italiano fa trasparire verso l’esterno è un disinteresse generale alla ricerca del nuovo. In passato, fare il passo più lungo della gamba era considerata una componente integerrima, sia in caso di successo che di fallimento. Oggi, invece, la cultura interna sembra essere decisamente cambiata. Altri tempi, altre questioni economiche, altre persone certo, ma è anche vero che nel corso degli anni abbiamo sistematicamente creato delle scuse per non fare ciò che la radio sa fare meglio: creare opportunità.
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Il trucco è non cercare il nuovo Linus
Uno degli errori di fondo in cui cadiamo come professionisti – che sia mentre cerchiamo una voce o un social media manager per la nostra emittente – è voler fiutare l’usato sicuro. Di personaggi come Linus e compagnia bella ne esiste solo uno: porsi come obiettivo la creazione di una fotocopia è quantomeno velleitario. Non è detto che dobbiamo per forza ricercare quelle determinate personalità lì. Al contrario, fuori dal nostro circuito sicuro esistono delle personalità di spessore che, con grande capacità, sanno fare il proprio mestiere o hanno delle qualità che andrebbero coltivate.
A questo punto – forse anche in modo abbastanza banale -, una controparte potrebbe ribattere asserendo che se un individuo è veramente bravo, riuscirà a farsi notare facilmente. Si tratta però di una mera illusione, in quanto se una persona urla forte il proprio nome, ma nessuno intorno ascolta le sue parole, sarà del tutto inutile. Un concetto che, in parte, abbiamo compreso durante un’intervista con Mauro Casciari: “Ascolto molte radio locali, a Palermo ho sentito almeno 4 persone che era perfette per una radio nazionale. […] Ahimè, di gente più brava c’è n’è tanta, purtroppo il merito è anche quello di conoscere e farsi apprezzare un minimo anche come persone”.
Un modus operandi che non si è di certo inventato il conduttore di Radio 2, ma che spiega una parte della realtà dei fatti: non è sufficiente essere molto più bravi di altri per primeggiare. E, in parte, la colpa è da inputare al nostro modo di concepire il mezzo radiofonico, troppo chiuso alle novità, alle proposte ai giovani mentre si sfrega le mani nel creare qualcosa di già visto, senza andare appunto oltre il nostro stesso muro di cinta.
La radio non dovrebbe essere la radio
Un altro aspetto sistematico che andrebbe riconsiderato è l’impostazione strutturale. Bisognerebbe riconoscere che certe metodologie hanno fatto il proprio corso, poiché permeate in una cultura che, di riflesso, assaporava quelle determinate creazioni. Se il contesto attorno a noi cambia, ma noi restiamo sempre gli stessi, sbatteremo contro quell’ostacolo di cui siamo gli stessi costruttori.
Volenti o nolenti, attualmente il contesto attorno a noi ha subito enormi modifiche in pochissimo tempo. In un certo qual modo, abbiamo provato a cercare una soluzione, come buttare gli influencer davanti un microfono, anche chi non avesse un briciolo di esperienza: ma questo non è bastato (o almeno nessun dato parla di una strategia di successo, forse perché i numeri social non si traducono automaticamente in ascolti).
Sì, è vero, questo discorso scevra dalla dalle questioni economiche. Tuttavia tempo fa abbiamo sottolineato quanto la radio non sia solo numeri, e pensare solo al riflesso pecuniario di una produzione può portare ad avere un plus di poco conto. Mentre, un’idea di cambiamento potrebbe generare molto di più.
Cosa dovrebbe fare la radio?
La radio deve cambiare senza snaturarsi completamente. In primis dovrebbe essere in grado di accogliere con entusiasmo le proposte di chi vorrebbe lavorare con lei: segno che, al di fuori del nostro piccolo universo, generiamo ancora una rispettabilità da coltivare e portare avanti (non è un dato così scontato). In secondo luogo, perché il futuro di un’azienda (qualsiasi essa sia) deve poggiare le basi su una progettualità diversa: se volessimo anticipare il nostro competitor su una particolarità, bisognerebbe essere in grado di aprire la finestra del nostro studio per osservare e ascoltare ciò che il mondo sta raccontando. E forse la risposta è tra chi ha recentemente consegnato un curriculum vitae.
Un’altra soluzione da adottare è scomporre quest’aura elitaria che il mondo radiofonico emana. Lavorare nel nostro ambiente è sicuramente un pregio e un privilegio, ma raccontarlo in questi caratteri non fa altro che creare un circuito presuntuoso e composto da geni che, nella fattispecie, non hanno nulla di geniale. “La suprema forma del successo arride a colui il quale non teme né il pericolo, né il lavoro! Ed è lui, di conseguenza, a ottenere il supremo trionfo!”, dice il Paperone di Don Rosa. Probabilmente, oggi, alla radio italiana manca anche questo.
Infine vale la pena sottolineare un altro pensiero. Far parte di questo circuito non ci rende matematicamente superiore a chi sta fuori, proprio perché fuori si potrebbe nascondere la perla in grado di determinare il nostro inaspettato successo in quanto azienda. Filosoficamente parlando, rischiare fa parte della vita. Se nessuno si assume la responsabilità di buttarsi nel vuoto, si avvalora un contesto dove vince chi è più cauto – e non c’è crisi che possa giustificare un’azienda in cattive acque, perché è solo un’azienda che non ha intravisto il cambiamento del mondo circostante.
Le opinioni non sono una scienza esatta, però viviamo in un ambiente dove viene sempre a mancare la capacità dell’autocritica. Così abbiamo formato un mondo dove tutti dicono di aver fatto la storia del mezzo, anche se l’ascoltatore non si ricorda il nostro nome.
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Articolo di Angelo Andrea Vegliante
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