La prima volta che incontrai Dino Brown fu a un festival di settore. Rimasi colpito da alcuni suoi dettami, tra i quali il modo di esporre una notizia a un microfono. Perciò, quando lo chiamai, sapevo già dove andare a parare, ma volevo allargare il discorso anche su altri punti. “Dai, sono pronto, ho tutto il tempo che vuoi” mi dice col sorriso.
Dino, iniziamo dalla domanda più classica di tutte: come nasce il tuo percorso artistico?
Io nasco come deejay, appassionato fin da ragazzino della musica dance degli anni Novanta. Facevo il deejay e poi partivo d’estate per i villaggi turistici. Lì ho scoperto di avere il “dono” della voce: io andavo prettamente per fare il deejay e poi, in un secondo luogo, una persona mi disse: “Ma perché non vai a fare la radio in spiaggia, dato che da deejay non fai una mazza?”. Perché sai, il deejay deve mettere musica d’ascolto in piscina, ma lasci il cd e finisce lì sostanzialmente. Ma dato che avevano visto che ero un fancazzista, mi hanno chiesto di fare una radio in spiaggia.
Sono andato a fare la radio in spiaggia, che consistenza praticamente nel prendere in giro quelli che facevano i corsi da windsurf e da lì è nata una bella situazione. Quando sono tornato a casa, mi sono detto: “Ma sì, quasi quasi ci provo a far la radio”. Ovviamente l’ho fatta tipo gratis per 13 anni, prima in una radio piccola delle mie parti, in provincia di Cuneo, poi mi sono trasferito a Rimini e ho fatto anche lì radio a livello gratuito in una radio del circuito InBlu che c’è tutt’ora, Radio Icaro, e da lì piano piano solo salito. Sono andato a Veronica Hit Radio – che adesso non esiste più – che era una super station del centro Italia, e poi m2o.
E, nel corso degli anni, Dino è diventato una colonna portante per m2o. Quant’è importante sentire la fiducia di questa emittente?
Credo che sia una cosa fondamentale. Io ho dimostrato e mentre dimostravo il direttore (Fabrizio Tamburini) mi lasciava a briglie sciolte il più possibile. Credo che si sia accorto immediatamente che comunque non ero uno speaker “canonico”. Io faccio molto caso alla tecnica, non sono uno che apre il microfono, va lì e quello che dice, dice. Anzi, cerco di fondere sempre la tecnica con la personalità. Però, avere un direttore che ti lascia esprimere è fondamentale.
Penso a tanti che sono in radio e hanno delle linee editoriali prettamente sul flusso e ovviamente devono fare quello che possono fare. Nonostante, secondo me, fare flusso sia una delle cose più difficili. Bisogna esser bravi, e in Italia ce ne abbiamo. Poi, radio di programmi e radio di flusso sono due cose diverse. Per quanto mi riguarda, ho sempre fatto la radio pensata come radio di programmi, forse perché mi ci sono sempre ritrovato. Secondo me, un po’ perché sono portato, un po’ perché me l’hanno lasciata fare. Quindi la fiducia è tutto, è un buon 80%.
Sai, io ho avuto modo anche di incontrarti in alcuni festival. Tu parlavi proprio di queste cose, ma sono rimasto sempre colpito da quello che dicevi riguardo al raccontare una notizia in radio. Qual è la ricetta più idonea per fare questo?
Questa cosa mi è stata insegnata dai miei direttore artistici, Mariagrazia Carulli a Veronica Hit Radio e poi da Fabrizio Tamburini. Secondo me, l’importante è essere asciutti il più possibile. Per dire, la classica notizia della ricerca del Massachusetts che ha scoperto che mettendo da una parte sette uomini e dall’altra sette donne… sono tutti fronzoli che distolgono l’attenzione di chi ascolta la vera notizia. Io nei talk la ragiono un po’ come nei giornali.
Ti faccio un esempio. Qualcuno mi dice: “Ma se io dico subito una notizia, non è che la brucio immediatamente?”. Qualcuno tende a fare dei giri larghi per arrivare alla notizia alla fine. E quindi parte dicendo: “Vi siete mai chiesti come mai…”. Mille robe prima di arrivare al succo. Invece io la ragiono come i giornali: prima c’è il titolo in grande, che coglie l’attenzione di chi ascolta e di chi legge, e poi c’è la spiegazione della notizia. Io cerco di andare semplicemente dritto al punto, catturare la tua attenzione subito e dopo, a cascata, trovarmi dei link mentali che possano far viaggiare l’ascoltatore attraverso quello che io penso.
Oltre a questo, a un giovane speaker ci sono altri consigli che potrebbero essere dati?
Sai qual è il consiglio principale? Ho conosciuto persone che vanno davanti a un microfono, accendono il pc e cercano di dire le notizie guardando semplicemente il pc. Non c’è niente di più sbagliato. L’improvvisazione appartiene ai grandi. Ma i grandi eh, quelli grandi davvero, che dopo quarant’anni con mezzo foglio riescono a imbastirti un talk. Gli altri devono prepararsi, devono studiare. Devono preparare un talk anche mettendoci mezz’ora.
Ho incontrato tanti ragazzi che si approcciano al mondo della radio, e tanti pensano più al fatto che è fico fare quel lavoro e a dire bene e a fare bene quello che devono fare. In realtà lo speaker non è altro che un tramite tra la linea editoriale della radio e l’ascoltatore. Tu sei un tramite, no? A Radiospeaker dicevamo: “Sei un sommelier di contenuti”. Quindi tanti sono attratti da fare radio, ma in realtà non sanno cosa vogliono comunicare.
Lo fanno solo per stare davanti al microfono.
Sì, perché è una cosa che emoziona, è una cosa bella, ma in realtà c’è uno studio dietro. Ci vuole preparazione, bisogna studiare. Non solo la tecnica, che certo è importantissima. Ma nell’affrontare una notizia bisogna pensare e mettersi nei panni dell’ascoltatore. E a quel punto dire: “Io lo ascolterei questo qui?”
Mi hai anticipato la domanda, Dino: qual è la ricetta più idonea per immedesimarsi nell’ascoltatore?
Io ho sempre ascoltato tanta radio. Adesso un po’ di meno per questioni di tempo. In realtà non c’è una ricetta ben definita. Ad esempio, nel mio caso, penso sempre, quando parlo, a cosa potrebbe pensare la persona che mi ascolta. Una volta, io facevo un talk e andavo immediatamente a riascoltarlo. Bisogna immediatamente riascoltarsi, fare un aircheck, riconoscere quando si dice una cosa in più, che stai allungando il discorso, che ti stai parlando addosso.
Quindi, riascoltarsi tanto e immedesimarsi sempre in chi sta ascoltando. È come mixare: mentre stai parlando, devi pensare a chi sta ascoltando. Come quando ascolti un disco, che poi devi ascoltare anche quello che c’è fuori altrimenti fai il cosiddetto cavallo e non vai a tempo. Ti dico la verità, non c’è l’ho una ricetta precisa per questa cosa.
Credo che nessuno ce l’ha, immagino che ognuno abbia un proprio modo di immedesimarsi nell’ascoltatore.
Ma in realtà, se tu fai finta di parlare a un tuo amico, ti viene proprio naturale di parlare come mangi (non in dialetto, eh). Il microfono deve essere la persona alla quale tu stai parlando. E l’ascoltatore percepisce se tu stai ridendo, se sei incazzato, se c’è qualcosa che non va, perché è come se il microfono veicolasse tutte le tue emozioni. Devi far conto come se stessi parlando con un amico.
Qui la famosa regola: in radio devi sempre sorridere.
Secondo me, è una regola un po’ vecchia. Dipende da che radio fai, dove sei e di cosa stai parlando. Se vai a Radio Rock a Roma e parli di quelli che sono morti a 27 anni, farlo con un sorriso… Diciamo che dipende un po’ dal contesto generale. Chi parla di musica non sempre deve farlo col sorriso. Può farlo anche in maniera decisamente più cazzuta, senza risultare volgare.
Però, in una fase iniziale di presentazione alle radio, il sorriso è fondamentale. Cioè, se tu mi mandi una demo nella quale io sento che stai sorridendo, ovviamente ispiri il sorriso a me e al direttore. Se invece mi mandi una demo in cui mi sembri moscio, mi viene da dire: “Ammazza come sei moscio”. Quindi sì, la regola del sorriso è importantissima, nel tempo va tenuta, ma soprattutto nella fase iniziale.
Ultima domanda, Dino: com’è cambiata la figura dello speaker negli ultimi anni, anche in relazione all’esplosione dei social network e alla diffusione dell’immagine di chi sta dietro al microfono.
Io preferivo la radio quando non si vedevano i volti.
Perché ci sono certe persone che sono brutte?
No, non per quello [ride]. Ti dirò la verità: qualche tempo fa, facevo le interviste per Dual Core e Facebook mi ha portato un grandissimo risultato. Il problema della radio, però, è che è lenta. Se una cosa va o non va te ne accorgi sei mesi dopo. Tutto è portato alla lunga. Per quanto riguarda la storia dei social network, è un mondo che da una parte, secondo me, è schizofrenico. Vedi i deejay: il mondo dei deejay è schizofrenia totale. E poi, nei social network puoi falsare le carte. Ti fai una foto fatta bene con la GoPro a Ibiza e dici: “Oddio sono qua a suonare in un locale magnifico”. Faccio degli esempi stupidi, eh.
Invece la cosa bella della radio è che ancora adesso, come negli anni Ottanta, se sei una pippa si sente. Non puoi falsarla la radio, capito? Indipendentemente dal social e dall’immagine, non puoi falsarla. Il fatto che comunque anche uno speaker sia sui social e che per noi i social siano importanti, è vero. Perché comunque estendi il tuo raggio d’azione. Ma il problema, secondo me, è che la radio ha perso un po’ di potenza rispetto agli anni Ottanta e Novanta. Questo perché credo che pochissime persone accendano la radio in casa. Credo che sia diventato prettamente un ascolto di macchina.
E di pc e di telefono?
Sì anche, però non dimentichiamo che ci sono Spotify e tante altre cose che distraggono le persone. Ti faccio un esempio. Se io facessi Controtendance sia in radio sia su Facebook, su quest’ultimo prenderei un bacino d’utenze due volte tanto rispetto alla diretta radiofonica. Perché ormai è proprio un modo di fare della gente. Se non stai sul telefonino, non esisti. Secondo me, la radio deve arrivare sui telefonini. A parte l’app e questo tipo di cose.
RTL ha sdognanato la radiovisione. Ecco, io non so dove andrà la radio nel futuro. Però se noi riusciamo a unire il bello della radio e a coinvolgere ancora più persone, secondo me è la nostra salvezza. Nonostante il fascino della radio sia ascoltar la radio e basta, senza vedere Facebook e tutto queste robe qui.
Dai, ultimissima Dino, mi hai dato uno spunto interessante. Fiorello era riuscito a fare una sorta di programma radiofonico su Facebook, poi però l’idea venne abbandonata nel momento in cui lo showman entrò a Radio Deejay. Questa cosa è passata un po’ in sordina.
In realtà Facebook è un’arma a doppio taglio. Quando tu lo fai per una stagione, va bene, è la novità. “Oh, hai visto Fiorello con la radio sui social..”. Quando lo fai la stagione dopo, rompi i coglioni. Perché la gente si annoia. La gente si annoia, adesso. Tornando al discorso dei social, credo che i veri professionisti si debbano preservare da questa bolla mediatica. Perché il troppo storpia.
Quindi è bene valutare i contenuti e i giusti contenuti che siano per Facebook, Instagram… Senza diventarne schiavi e postare quattro foto al giorno. Anche perché ci ascoltano, non interessa a nessuno di vederci. A meno che non siamo personaggi che vanno al di là del mondo radiofonico. Invece i più giovani ti dicono: “Ho capito, ma io Facebook ce l’ho, come faccio a farmi conoscere?”.
Questo sarebbe un discorso anche da legare alle web radio.
Sì, però… Io apprezzo tantissimo i giovani come te che si avvicinano a un mondo che in realtà è molto lungo, è lunga la radio, non hai scorciatoie, difficilmente arrivi perché sei un personaggio che fa altre cose. Adesso, ma quanti giovani si avvicinano al mondo della radio? Saranno il 2%? In realtà, la radio è un mezzo di comunicazione potentissimo, viene solo dopo la tv. Però tanti, invece, puntano a fare i modelli su Instagram, trovare le vacanze gratis… Pensano a questo tipo di cose che sono più immediate.
I social ti hanno un’altra visione della vita: “Fai questo che poi spacchi sicuramente e forse dopo ti prendono anche in radio”. Ma in realtà non è così, perché tanti personaggi televisivi che poi sono arrivati in radio sono durati due/tre/quattro anni, e poi? Non dico tutti, ma tanti sì. E quindi la radio va costruito e pensata piano piano. Anche la sicurezza in se stessi arriva piano piano, non puoi fare subito un provino e diventare uno dei migliori per il tuo circuito. Ci vuole tempo.
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Intervista a cura di Angelo Andrea Vegliante
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