Il momento storico che stiamo vivendo ci porta ad interrogarci su limiti e potenzialità del mezzo radiofonico. Qual è il ruolo della radio nei momenti di crisi?
È sempre stato un ruolo centrale, ancor più dei momenti di normalità, se mai ci sono stati. Storicamente la radio ha avuto un peso importante durante le guerre, in altre pandemie del passato, in momenti come l’alluvione di Firenze nel ’66 o le proteste in piazza del maggio ’68 a Parigi. Parlando di avvenimenti più recenti, invece, pensiamo ai terremoti del 2016 nel centro Italia. La prima ad arrivare sul posto e a collegarsi fu Rai Radio 1, ancora prima della televisione. La radio è un mezzo leggero, che si ascolta in mobilità, facile da raggiungere. Questo non è mai cambiato. Ora i dati ci dicono che durante la pandemia è cresciuto l’ascolto da casa. Molte persone infatti si sono informate di più, ma questo vale per tutti i media, non soltanto per la radio. La differenza però è che la radio è considerata più affidabile rispetto ai social media e ai giornali. Questo ci fa riflettere: in televisione spesso si tende a spettacolarizzare i fatti con le immagini e con il bisogno quotidiano di fare audience, mentre sui social media non c’è un’autorità esperta, piuttosto ci sono molte notizie messe in circolo da tante persone diverse. Va da sé che la radio sia più affidabile, anche perché l’informazione è prodotta da giornalisti che hanno un tono diverso rispetto alla ricerca continua della spettacolarizzazione.
Nell’ambito dei media la radio resiste e gli ascolti reggono. Alla luce di questo periodo possiamo dire che la radio è più che viva?
Sì, anzi, bisognerebbe smetterla di pensare che la radio è morta perché non è così. C’è molta più crisi nel settore della stampa, ad esempio. La radio tiene e in questi momenti di crisi è anche cresciuta. Tuttavia non è detto che una volta passata, la crisi lasci in eredità un ascolto maggiore del mezzo radiofonico. Noi torneremo alla nostra quotidianità e le radio non hanno trovato una formula magica, semplicemente adesso si ha più bisogno di loro. Bisogna vedere cosa succederà nel lungo periodo. Adesso questi dati sono buoni ma, se messi in prospettiva, non c’è un aumento incredibile di ascolti. C’è piuttosto una loro tenuta negli ultimi 10 anni, ma le fasce più giovani sono in diminuzione, così come il tempo di ascolto generale. Nonostante il numero di persone che ascoltano la radio pare tenere, permangono dei motivi di preoccupazione. In questo senso la radio non è né morta né incredibilmente viva.
Con la pandemia la mobilità si è ridotta. Come cambia la fruizione della radio con lo stare a casa e lo smart working?
Chi lavora da casa ha forse più occasione di ascoltare la radio rispetto a chi sta in ufficio e condivide lo spazio con altri colleghi. Quindi chi aveva l’abitudine di ascoltare e seguire certi programmi, probabilmente a casa ha potuto sfruttarli meglio. Questo però dipende moltissimo dal tipo di background socioculturale del pubblico. A seconda del lavoro che facciamo e anche del profilo socioculturale che abbiamo, facciamo ascolti diversi, sia di sottofondo che di primo piano. Ci sono pubblici differenti, sicuramente viaggiare meno ha cambiato l’ascolto in auto, quello che in Italia era il luogo elettivo della radio. Si sono quindi persi molto gli ascolti in mobilità e sono stati in parte recuperati da quelli domestici ma, ripeto, questi ultimi variano a seconda del tipo di lavoro che si fa in casa. Non è detto che siccome c’è lo smart working tutti tornino ad ascoltare la radio in casa nello stesso modo.
L’invito che durante il lockdown ci è stato fatto dai diversi media è stato quello di restare a casa e, per spostarci virtualmente, sono state avviate tante iniziative in streaming. Questo però la radio l’ha sempre fatto, perché ascoltare una voce senza il supporto del canale visivo significa anche viaggiare con la mente. Può essere questo un aspetto da potenziare ora?
Paradossalmente sì, anche se sembra che le radio stiano andando nella direzione opposta, quella della radiovisione a tutti i costi. In realtà forse oggi nell’infodemia, nella molteplicità delle offerte di contenuti in streaming televisivi o di internet che ci arrivano addosso continuamente, la leggerezza e la possibilità della radio di essere facilmente ascoltata senza immagini da uno smartphone, ascoltando un podcast di un programma che è già andato in onda o che ci siamo persi, ritorna ad essere un forte valore. Proprio quella mancanza di informazione visiva paradossalmente torna ad essere un grande vantaggio della radio.
Pensi che in seguito a questa crisi ci sarà anche un cambiamento nel modo di pensare i programmi radiofonici?
Dipende da quanto ritorneremo presto alla normalità. Chiaramente se andiamo a guardare altre esperienze in altri paesi europei, in quelli dove è più forte l’ascolto domestico rispetto all’ascolto in mobilità, le radio più forti sono quelle di contenuti. L’Italia però è sempre stato un Paese dove l’ascolto di flusso era molto importante, un ascolto di sottofondo che si integrava bene con la mobilità, la vita frammentata fuori casa. Non credo che ci sarà un aumento rilevante delle radio di programmi per il fatto che le persone tornano ad ascoltare le radio in casa. Se la pandemia durasse ancora per i prossimi 5 anni forse sì, ma al momento non vedo grandi cambiamenti all’orizzonte. I cambiamenti nel senso di cosa si trasmette e in che modo non sono tanto influenzati dalla pandemia quanto da evoluzioni tecnologiche e dall’avvento di altri competitor digitali.